Mentre la Brexit pensa a volgersi al Commonwealth, un’altra serie di tentativi di riabilitare l’impero della fame aumenta con essa.



L’impero dell’estorsione, schiavitù e fame.
Poiché le possibili implicazioni dell’estensione auto-imposta del “no-deal” coll’Unione Europea si profilano peggiori, una rinnovata nostalgia imperiale si fa viva. Dopo aver voltato le spalle al Commonwealth dagli anni ’80 thatcheriani, leader del partito conservatore inglesi, cercano di rianimare i legami coloniali con sforzi sempre più disperati per evitare l’emarginazione autoinflittasi dopo il divorzio dai vicini dell’Unione Europea d’oltremanica. Parte della nuova mitologia neo-imperiale indotta dalla Brexit è che le sue colonie non apportarono alcun significativo beneficio economico alla Gran Bretagna. Invece, si suggerisce che le amministrazioni coloniali fossero gestite a caro prezzo dalla Gran Bretagna. L’impero, si sostiene persino, fu a lungo mantenuto grazie a un benevolo senso di responsabilità imperiale. Per rianimare le relazioni clientelari trascurate con la svolta verso l’Europa negli anni ’80, il nuovo mantra è che il dominio britannico aiutò a “sviluppare” l’impero. Poiché il sole non tramontava mai sul vasto impero inglese, acquisito con vari mezzi per ragioni diverse nei vari momenti, poche generalizzazioni sono appropriate. Tuttavia, c’è già una ricerca significativa che indica il contrario per molte colonie, e l’India, ovviamente, ne era il fiore all’occhiello.

L’impero colpisce ancora.
L’ex-Ministro degli Esteri indiano Shashi Tharoor smentiva molte affermazioni apologetiche imperiali, incluse quelle dell’ex-storico di Oxford e Harvard Niall Ferguson. Probabilmente più importante, Ferguson affermò decenni fa che i Paesi progredirono grazie all’imperialismo, in un’influente serie televisiva e sponsorizzazione editoriale della British Broadcasting Corporation (BBC), “Empire”. Il libro sulla Malesia di Sultan Nazrin Shah di Oxford University notava il contributo cruciale nele esportazioni di materie prime coloniali malesi nei primi quattro decenni del XX secolo, mentre altri studi dimostravano che la ripresa inglese nel dopoguerra dipese in modo cruciale dal contributo delle esportazioni della sua colonia del sud-est asiatico. Meno noto è il lavoro scrupoloso di Utsa Patnaik su quasi due secoli di dati fiscali e commerciali. Secondo le stime, la Gran Bretagna prosciugò 45 trilioni di dollari dal subcontinente indiano tra il 1765 e il 1938, equivalenti a 17 volte l’attuale prodotto interno lordo del Regno Unito.

Eccedenza coloniale.
Dopo che la Compagnia inglese delle Indie Orientali ottenne il controllo e monopolizzò il commercio estero indiano, i commercianti della CIO “comprarono” beni indiani con le entrate fiscali da loro riscosse. Dopo che la corona inglese sostituì la CIO nel 1847, il suo monopolio crollò e i commercianti dovettero pagare Londra coll’oro per avere le in rupie con cui pagare i produttori indiani. In base agli accordi monetari imperiali, i proventi delle esportazioni delle colonie erano considerati inglesi, e quindi contabilizzati come deficit nel resoconto “nazionali”, nonostante le eccedenze commerciali spesso elevate col resto del mondo fino alla Grande Depressione. Quindi, l’impero fu descritto dagli apologeti imperiali come passività per la Gran Bretagna, con l’India che doveva prendere prestiti dalla Gran Bretagna per finanziare le proprie importazioni. Così, l’India rimase indebitata e “legata” dal debito con la Gran Bretagna. Non sorprende che due secoli di dominio inglese non abbiano aumentato significativamente il reddito pro capite indiano. In effetti, le entrate diminuirono della metà nella seconda metà del 19° secolo, mentre l’aspettativa di vita media scese di un quinto tra il 1870 e il 1920! Infelicemente, decine di milioni morirono a causa di carestie evitabili indotte da decisioni politiche coloniali, tra cui le due carestie del Bengala.

Anche schiavitù.
La Gran Bretagna usò tali guadagni fraudolenti per molti scopi, compresa l’ulteriore espansione coloniale, prima in Asia e successivamente in Africa. I contribuenti delle colonie pagarono quindi non solo l’amministrazione del proprio sfruttamento, ma anche l’espansione imperiale altrove, comprese le guerre inglesi. L’accumulo precoce per la rivoluzione industriale inglese dipese in maniera significativa da tali accordi coloniali. Il tributo imperiale finanziò l’espansione del colonialismo e degli investimenti all’estero, comprese le colonie europee. Non diversamente dall’opera magnadi Eduardo Galeano, “Le vene aperte dell’America Latina”, il classico di Walter Rodney del 1972, “Come l’Europa ha sottosviluppato l’Africa”, mostrava come schiavitù ed altre politiche economiche imperiali abbiano trasformato, sfruttato e brutalizzato l’Africa. In “L’Impero colpisce ancora”, Robert Beckford stimò che la Gran Bretagna dovrebbe pagare ben 7500 miliardi di sterline in riparazione per il ruolo nel commercio transatlantico di schiavi, suddividendoli così: 4 trilioni di sterline in stipendi, 2,5 trilioni di sterline per arricchimento ingiusto e 1 trilione di sterline per dolori e sofferenze. La Gran Bretagna non si è mai scusata per la schiavitù o il colonialismo, come fece per la carestia delle patate irlandesi. Non ci fu alcun riconoscimento pubblico di come la ricchezza estratta dall’imperialismo abbia reso possibile finanza, investimenti, produzione, commercio e prosperità della Gran Bretagna moderna. Con la Brexit imminente, è emersa una nuova narrativa e un discorso nostalgico imperiale articolato, tra l’altro, come ritorno al Commonwealth, a lungo abbandonato da Maggie Thatcher. Quindi, ben oltre la metà degli intervistati nel Regno Unito ritiene effettivamente che l’imperialismo inglese fosse vantaggioso per le colonie. Tale convinzione non è solo chiaramente auto-illusoria, ma oscura anche la lotta neocoloniale inglese per l’energia e le risorse minerarie, il ruolo potente da paradiso fiscale della finanza opportunistica, così come la sua leadership imperiale globale continua, anche se solo in supporto dissolvente agli Stati Uniti nell’ambito della loro “relazione speciale”.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte estera: http://www.ipsnews.net

Fonte: http://aurorasito.altervista.org


 

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