Per 20 anni i media hanno parlato del traffico di organi tra la fine degli anni '90 e l'inizio del 2000 in Albania. Carla del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale dell'Aia ci ha scritto un libro, e ne ha parlato in un suo rapporto il Relatore speciale dell'APCE Dick Marty. Ma se ci sono prove, perché non c'è stato nessun processo?

Il capo del Comitato parlamentare serbo per il Kosovo e la Metochia, Milovan Drecun ha mostrato al corrispondente Sputnik un rapporto UNMIK (missione NATO in Kosovo) del 2004 sulla "Casa gialla" nel nord dell'Albania, che presumibilmente era il centro del traffico di organi umani nel periodo dal 1998 al 2001.

Una copia di questo documento è a disposizione del gruppo di lavoro dell'Assemblea serba per la raccolta di prove e fatti sui crimini dell'esercito di liberazione del Kosovo contro il popolo serbo. Secondo il fondamento logico contenuto nel rapporto, il Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia ha chiesto che l'Ufficio per le persone scomparse e l'Esame medico forense conducesse un'ispezione della Casa gialla e del territorio circostante sulla base di una testimonianza:

"Secondo le testimonianza di molte persone, in Albania, in una casa vicino a Burreli, venivano uccise diverse persone, i cui corpi sarebbero stati sepolti nella stessa zona".

L'ispezione della casa e l'esame, secondo il testo del documento, sono stati condotti il ​​4 e il 5 febbraio 2004. Gli esperti forensi di UNMIK Tom Grange e Hroar ​​Frydenlund, che hanno riferito sul loro lavoro sul campo, hanno concluso:

"Sulla base dei risultati della ricerca, a nostro avviso, non vi è alcuna prova inequivocabile che il sanguinamento nelle persone che si trovavano in una casa nel sud-ovest della Burreli in Albania sia stato il risultato di attività criminali. Tuttavia, c'è stato un test positivo del luminol per tracce di sangue in cucina e nella dispensa".

Il rapporto contiene anche una descrizione dettagliata e fotografie di tutti i locali della casa, l'area intorno alla casa, così come tutti gli strumenti e i reagenti utilizzati durante l'esame.

Secondo Milovan Drecun l'Ufficio speciale di perseguimento penale dell'Esercito di liberazione del Kosovo è stato creato su richiesta della comunità internazionale nel 2017 dopo lo scioglimento Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia, insieme alla Corte speciale per i crimini di guerra dell'Esercito di liberazione del Kosovo, con il fine di avviare un'indagine sul caso del traffico illegale di organi umani.

Il dottore in scienze mediche e generale maggiore in pensione, che ha prestato servizio come testimone in molti processi del Tribunale dell'Aja, tra cui il processo di Ratko Mladic, Zoran Stankovic, in una conversazione con Sputnik ha dichiarato che è necessaria una valutazione del rapporto da parte di un esperto, al fine di stabilire se possa servire come base per le istituzioni internazionali autorizzate ad avviare procedimenti penali contro persone note o sconosciute.

Oltre al rapporto dell'UNMIK del 2004, Milovan Drecun ha menzionato un altro rapporto contenente informazioni sulla "Casa gialla", ampiamente descritto come un centro inquietante del traffico di organi umani, dove gli albanesi avrebbero ucciso e smembrato le loro vittime serbe e avrebbero venduto i loro organi:

"Si tratta di un rapporto dell'ottobre del 2003, di un incontro tra il capo del Dipartimento investigativo del Tribunale dell'Aia e il capo del Dipartimento di giustizia dell'UNMIK, Emon Smith, che menziona otto testimoni albanesi che avevano informazioni sul traffico di organi umani".

"Quattro di loro hanno partecipato al trasporto di almeno 90 serbi e altre nazionalità nelle carceri dell'Albania centrale e settentrionale, altri tre hanno portato prigionieri alla clinica, altri due hanno preso parte al trasporto di parti del corpo e organi all'aeroporto di Rinas vicino a Tirana. Tutta la logistica e le operazioni chirurgiche venivano condotte con la piena consapevolezza e il supporto di ufficiali di grado medio e alto dell'Esercito di liberazione del Kosovo, così come della polizia segreta albanese, quindi sotto il controllo dell'ex premier Sali Ram Berisha", afferma Dreсun.

Fonte: https://it.sputniknews.com





Dopo la fine dell’intervento NATO in Jugoslavia, in Kosovo scomparirono senza lasciare traccia circa 1000 persone, stando a dati di diverse fonti.

Probabilmente alcuni di loro nella vicina Albania furono privati degli organi che poi venivano spediti via aerea verso destinazioni sconosciute. Cosa sappiamo davvero del “traffico di organi” in questa area dell’Europa?

Il 19 luglio Ramush Haradinaj, capo di governo del Kosovo autoproclamato ed ex comandante dell’organizzazione terroristica (secondo Belgrado) dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK), si è dimesso perché chiamato a rispondere dinanzi al Tribunale speciale che giudica i crimini commessi dall’UÇK. Il 24 luglio è stato interrogato come imputato all’Aia, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. In seguito ha dichiarato che la legge gli vieta di rispondere alle domande che gli sono state poste.

Il fratello di Ramush, Daut Haradinaj, che ha un passato militare simile, stando a Milaim Zeka, segretario del Partito Euratlantico del Kosovo, avrebbe anch’egli ricevuto la notifica, ma non ha ritenuto opportuno parlarne pubblicamente. Tali voci sono state diffuse il 15 agosto.

 


Il dossier dell’Aia sull’ex premier kosovaro.

Daut Haradinaj ad oggi non si è ancora presentato di fronte alle istituzioni giuridiche internazionali, mentre il caso del suo fratello maggiore Ramush è stato esaminato ben due volte dal Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia (TPIJ), nel 2005 e nel 2008, e Ramush venne assolto entrambe le volte.

L’ex comandante militare era accusato di aver gestito in prima persona le operazioni di deportazione violenta di serbi e zingari, di fermo coatto di persone, di espropriazione di immobili, di omicidi, stupri e altri crimini, fra cui rappresaglie sugli albanesi kosovari sospettati di collaborare con l’esercito jugoslavo. Il Tribunale stabilì che i membri dell’UÇK avevano commesso crimini atroci, ma Haradinaj non era stato coinvolto.

Va detto che Haradinaj era imputato proprio per avvenimenti accaduti durante la guerra in Kosovo, nella fattispecie per crimini di guerra e contro l’umanità commessi tra il 1° marzo 1998 ed il 30 settembre dello stesso anno. Dunque, rimane un caso irrisolto la scomparsa di cittadini kosovari dopo la fine dell’aggressione NATO contro la Jugoslavia e dopo la ritirata delle Forze armate e della polizia jugoslave dall’inizio dell’estate del 1999 fino al settembre del 2000.

In concomitanza con l’interrogatorio dell’ex premier kosovaro, l’agenzia di stampa serba SRNA ha ricordato il rapporto, sulle deposizioni dei testimoni del 30 ottobre 2003 che fu redatto da Eamon Smith, capo della Missione ONU a Pristina e Skopje, e indirizzato a Patrick Lopez-Terres, capo della Direzione Indagini del TPIJ, e supervisionato da Paul Coffey, capo del Dipartimento Giustizia della Missione ONU in Kosovo (UNMIK).

Del documento non si parla da tempo. E non lo si conoscerebbe nemmeno se non fosse per il libro pubblicato nel 2008 da Carla del Ponte, ex procuratrice capo del TPIJ, dal titolo “La caccia: io e i criminali di guerra” in cui per la prima volta si parla pubblicamente degli organi destinati al mercato nero in Kosovo e Albania e della cosiddetta “casa gialla” nel nord dell’Albania che probabilmente veniva usata come base per operazioni illegali.

In seguito, sulla base delle stesse testimonianze e di ulteriori prove raccolte durante la perizia effettuata alla “Casa gialla” nel 2004, venne redatta dal senatore svizzero Dick Marty la relazione presentata poi all’ Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa alla fine del 2010.

Delle informazioni che evidentemente coincidevano con il contenuto del rapporto di Eamon Smith già nel 2008 era in possesso anche Human Rights Watch.

Nel 2011, dopo l’intervento di Dick Marty all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, in Rete è comparsa una scansione del documento originale dell’UNMIK. Di questo documento hanno scritto diversi media serbi ed anche internazionali.

Ma perché parliamo oggi di questo documento?

 


Il cambio di condotta dell’UÇK.

“Ramush e Daut (i fratelli Haradinaj) nel luglio del 1999 richiesero ai comandanti locali dell’UÇK di organizzare il sequestro dei serbi presenti nel territorio da loro controllato e la loro deportazione in Albania. Continuammo a uccidere e torturare i serbi, ma tutto sotto il controllo dei fratelli”, racconta uno dei testimoni, la cui deposizione è riportata nella relazione UNMIK del 2003.

“Daut Haradinaj si recò a Tirana diverse volte per verificare come andassero le cose. Anche Ramush si recò un paio di volte a Tirana. Non so esattamente tutti i dettagli sul suo coinvolgimento. Lui passò questi affari al fratello, ma sicuramente sapeva tutto”, dice un altro dei partecipanti al trasporto dei prigionieri dal Kosovo in Albania, membro di basso rango dell’UÇK, le cui parole sono anch’esse riportate nel rapporto menzionato più sopra.

L’inattesa preoccupazione dei fratelli Haradinaj affinché venisse salvaguardata l’integrità fisica dei serbi kosovari sequestrati fu una sorpresa anche per gli stessi membri dell’UÇK. Uno di loro ricorda:

“A Prizren ci ordinarono di non picchiare i prigionieri e di comportarci bene con loro. Fu la prima volta che sentii qualcosa di simile e fui sorpreso perché prima di allora ci era sempre stato concesso di picchiarli come volevamo, di spezzare loro braccia e gambe”.

“Fate prima rapporto a me di tutti quelli che catturate, ci ordinò Dukadjin, comandante della regione”, ricorda un altro testimone.

Durante la guerra degli anni ’90 i leader dell’UÇK suddivisero il territorio del Kosovo e della Metochia in 8 aree operative. L’area di Dukadjin comprendeva i villaggi più a ovest. Qui erano attivi circa 2500 combattenti suddivisi in 3 brigate. Il comandante di una di queste era Daut Haradinaj. A comandare l’area operativa era Ramush Haradinaj in persona, stando alle dichiarazioni rilasciate da un testimone al Tribunale Internazionale per l’ex Jugoslavia nel 2011.

Otto testimoni che hanno dichiarato di aver deportato in Albania gruppi di prigionieri fanno luce sulla ragione di quell’improvvisa attenzione dei comandanti dell’ UCK per la salute di quelli che fino al giorno prima erano nemici.

Ma che cos’hanno raccontato esattamente proprio loro che hanno deportato prigionieri vivi e seppellito quelli morti in Albania?

Fonte: https://it.sputniknews.com



La prima volta non sapevo cosa stesse succedendo. La seconda volta pensai che si trattasse di prostituzione. Ma la terza volta capii esattamente cosa fosse e rimasi terrorizzato. Volevo solo scappare.

“La prima volta non sapevo cosa stesse succedendo. La seconda volta pensai che si trattasse di prostituzione. Ma la terza volta capii esattamente cosa fosse e rimasi terrorizzato. Volevo solo scappare. Dopo essere tornato in Kosovo dissi al comandante di avere la polmonite. Così fui sollevato dall’incarico”, ricorda un albanese che collaborava con l’UÇK e si occupava del trasporto dei prigionieri dal Kosovo in Albania dopo la fine della guerra in Kosovo.

Che cosa mai poteva terrorizzare un autista dell’Esercito di Liberazione del Kosovo che aveva visto la guerra? (Le sue testimonianze si possono trovare nel rapporto dell’UNMIK sotto lo pseudonimo “testimone #1”).

Va ricordato che questo rapporto del 30 ottobre 2003, redatto da Eamon Smith, capo della Missione ONU (UNMIK) a Pristina e Skopje, e indirizzato a Patrick Lopez-Terres, capo della Direzione Indagini del TPIJ, fu il primo documento e uno dei più informativi nel suo genere ad essere dedicato al presunto traffico di organi umani in Kosovo e Albania tra il 1999 e il 2000.

 


Un odore dolciastro e nauseabondo.

Il rapporto redatto in lingua inglese contiene le dichiarazioni di 8 testimoni anonimi i cui nomi per questioni di sicurezza sono stati sostituiti da numeri in successione e da lettere: fonti #1, 2, 3, 4 e fonti N, P, C, B. Tutti caratterizzati come di etnia albanese. Tuttavia, nella copia disponibile del rapporto sono presenti solo le dichiarazioni di quattro testimoni, mentre quelle degli altri sono citate nella conversazione allegata al rapporto, da cui emerge che le testimonianze rese dalle prime quattro fonti, corrispondono parzialmente a quelle degli ultimi quattro.

“Mi dissero che avrei dovuto portare il camion da Pec (città kosovara) a Prizren (città kosovara al confine con l’Albania. PA (iniziali) mi disse di fare quello che mi era stato detto, di non aprire la bocca e di dimenticarmi di quella missione, così avrei potuto vivere fino alla vecchiaia”, ricorda il “testimone #2”.

Un’altra fonte, le cui testimonianze sono riportate nella relazione, racconta di aver trasportato verso la “Casa gialla” non solo serbi, ma anche prigionieri che parlavano lingue slave dell’Europa orientale e dell’ex URSS. Ricorda che nel camion non c’erano finestrini e la ventilazione non funzionava. Alcune ragazze all’interno del mezzo, infatti, per poco non soffocarono. Inoltre, nel rapporto si dice che a questo testimone venne ordinato di continuare il suo tragitto trasportando parti di corpi e/o organi all’aeroporto di Rinas, nei pressi di Tirana, e di riseppellire (o seppellire per la prima volta) le spoglie di corpi che si trovavano in sacchi neri.

Un’altra testimonianza: “Una fonte ha descritto il viaggio nella casa a sud di Burrelli (ovvero la “Casa gialla”, NdR). Lì il suo supervisore gestiva gli addetti alla sepoltura delle spoglie in sacchi neri. La fonte afferma di aver visto che 10-20 corpi venivano sepolti in un piccolo cimitero a un chilometro da quella casa”.

È singolare che nessuna delle persone indicate nel rapporto dell’UNMIK abbia assistito alle operazioni mediche vere e proprie. Tuttavia, uno di loro ricorda:

“Mi capitò di finire in una stanza della casa a sud di Burreli per prendere dell’acqua. La stanza era pulita, ma c’era un intenso odore di medicinali. Mi fece pensare ad un ospedale. Ma, come potete immaginare, l’odore era dolciastro, ma nauseabondo. Mi faceva schifo, volevo andarmene il prima possibile”.

“C’erano due arabi in uniforme UÇK. La casa era attraversata da un odore nauseabondo e sulle pareti erano state scritte delle sure del Corano”, conferma un’altra fonte.
Il business non è guerra: nel vortice finirono non solo i serbi

Le dichiarazioni dei testimoni indicano che i comandanti dell’UÇK consideravano i fatti accaduti tra il 1999 e il 2000 come un business redditizio:

“C. dice che alla prima coppia di serbi furono estratti solo due reni e dopodiché vennero uccisi. L’idea era di penetrare il mercato. Poi, iniziarono ad agire in maniera migliore (dal punto di vista del guadagno, NdR) e arrivavano anche a 45.000 (probabilmente dollari, NdR) per persona”.

“La guerra e il caos subito dopo era la situazione migliore per gestire il business”, afferma una delle fonti, ripetendo le parole di un proprio superiore dell’ UÇK.

Al rapporto UNMIK è allegato un elenco di dieci prigionieri mandati in Albania. In base ai cognomi tutti e 10 sarebbero serbi. Nelle testimonianze si menzionano molte più vittime di questi rapimenti, trasportate in Albania dai testimoni: venivano trasportati in grandi gruppi, ognuno composto da decine di persone. Tuttavia, le fonti non conoscevano i loro nomi.

“C’erano 30 prigionieri fra cui una donna e 10 combattenti dell’UÇK. Ci aspettavano. Era chiaro che avessero camminato a lungo. Erano sporchi e pieni di polvere, alcuni avevano dei lividi”, così “testimone 2” ricorda il primo gruppo da lui trasportato dal Kosovo in Albania.

L’autore del rapporto UNMIK, Eamon Smith, conclude che la maggior parte dei prigionieri erano kosovari serbi rapiti tra il giugno e il settembre 1999.

Tuttavia, nelle dichiarazioni delle fonti figurano anche rapiti albanesi. Inoltre, uno dei testimoni, il #6, fu anch’egli prigioniero dell’UÇK, venne fermato perché sospettato di collaborare con l’esercito jugoslavo. Nel documento si legge che suo fratello fu ucciso perché anch’egli sospettato.

“Ricordo che ero molto turbato perché là c’erano anche ragazze albanesi. Ed erano davvero giovani”, conferma “testimone #1”.

Michael Montgomery, collaboratore del Center for Investigative Reporting e autore del documentario “The Kosovan disappeared”, in un’intervista a Balkan insight nel 2009 ha confermato che le sue indagini, servite da base al rapporto di Eamon Smith e Patrick Lopez-Tarres, erano cominciate con la ricerca delle spoglie degli albanesi scomparsi senza lasciare traccia. Di Montgomery si parla anche più avanti.

Per il momento sottolineiamo che nel rapporto UNMIK figura questa dichiarazione di un testimone:

“Le ragazze albanesi del nord venivano rapite e usate a questo fine (gli organi, NdR) invece di essere mandate in Italia a prostituirsi come molte altre”.

 


I giovani “carne” pregiata.

Alcuni testimoni le cui dichiarazioni sono disponibili nel rapporto UNMIK sono concordi sul fatto che i prigionieri deportati dal Kosovo all’Albania all’apparenza erano giovani ed in salute.

“Non so chi fossero quei serbi. Avevano tutti più o meno 30 anni. Dal loro aspetto e dal loro abbigliamento pareva che fossero gente di campagna”.

“Spinsero 4 uomini serbi in un minivan. Erano giovani e in buona forma”.

Tre testimoni prestano attenzione agli insoliti ordini dei comandanti di trattare bene i prigionieri, di non picchiarli, non provocare traumi, dare loro da mangiare e da bere:

“Pensavo che intendessero ucciderli. E invece ci ordinarono di non picchiarli, di non provocare loro traumi, ma di dar loro acqua e cibo. Questo successe tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1999”, ricorda “testimone #1”.

“Portai loro la colazione. Ero sorpreso nel vedere che la colazione dei prigionieri fosse così abbondante”, afferma un altro testimone.

Tra il 1999 e il 2000 il Kosovo non aveva ancora dichiarato l’indipendenza ed era una provincia autonoma della Serbia sia per Belgrado sia per la comunità internazionale. Tra il Kosovo e l’Albania era in vigore un confine di stato a tutti gli effetti.

Molti combattenti che deportavano serbi kosovari giovani e in salute in Albania confermano che in corrispondenza della frontiera venivano fatti passare senza problemi nonostante il traffico limitato e i continui controlli.

“Andavamo a Kukes, attraversavamo il confine a Morine. Il traffico era molto intenso. Nessuno però ci fermava al confine”, ricorda “testimone #2”.

Uno dei testimoni sostiene che all’aeroporto Rinas, da dove materialmente gli organi venivano esportati dal Paese, non c’era nessun problema:

“S. mi disse che all’aeroporto non c’erano stati problemi. Ai dipendenti erano stati dati molti soldi perché chiudessero un occhio su tutta la faccenda”.

Il giornalista Michael Montgomery nella sua intervista si dice perplesso riguardo al motivo per cui la vendetta postbellica nei confronti dei serbi del Kosovo, avesse assunto quelle forme:

“Noi fummo scossi dal fatto che, se questi atti furono semplicemente omicidi per vendetta, che motivo c’era di preoccuparsi di trasportare i cadaveri in Albania attraversando le montagne? Perché non ucciderle direttamente in Kosovo come era stato fatto con altri? Ancora più strane furono le storie secondo cui a chi trasportava i rapiti venne ordinato di non fare del male ai prigionieri. Questo avrebbe senso solo nel caso in cui fossero stati sequestrati per chiedere un riscatto. Ma non sono a conoscenza di molti casi di riscatto, tantomeno di casi che videro implicati dei serbi”.

 


“Non vogliamo essere fatti a pezzi”

Due testimoni parlano di visite e analisi mediche che vennero effettuate sui prigionieri in loco.

“Durante la prima deportazione a Burreli capii che li visitavano e facevano loro le analisi del sangue. Anche prima di allora avevo sentito che facevano le analisi del sangue ai prigionieri. E questo mi sorprese. Perché lo facevano?”, ricorda “testimone #1”.

Tre testimoni confermano di aver visto nei luoghi di deportazione dei prigionieri alcuni medici albanesi e un dottore di nazionalità sconosciuta dalla carnagione olivastra. Altri testimoni lo identificano come arabo o egiziano.

“Arrivammo fino alla fine della strada dove si trovava la Casa gialla. Di fronte alla casa c’erano alcune persone e due dottori (o almeno così ce li presentarono). Uno era arabo e il secondo albanese. Il secondo lo chiamavano Dr. Admir”.

Tre testimoni parlano dei documenti medici consegnati ai “corrier” prima del trasporto coatto:

“Il giorno seguente li portammo via dalla Casa gialla, a Fushe-Kruje. Prima di partire, il dottore diede al soldato una borsa nera. Penso che dentro ci fossero delle lettere. In tutti i viaggi successivi ci diedero una borsa o una scatola con dei documenti che dovevano essere tramessi al dottore quando consegnavamo i prigionieri”, ricorda “testimone #1”.

“I serbi avevano paura. A una delle fermate un uomo ci chiese di ucciderlo sul posto. “Non vogliamo essere fatti a pezzi”, disse. Nel tardo pomeriggio li portammo nella Casa gialla”, ricorda “testimone #1” nel rapporto UNMIK.

Secondo le testimonianze di S. questi serbi avevano tutte le ragioni per aver paura:

“S. mi racconto che sulle montagne tenevano prigionieri molti serbi per “migliorare le analisi del sangue”. Davano loro da mangiare e li facevano lavorare molto nelle fattorie e nell’industria del legno. Quando i membri dell’UÇK ricevevano una richiesta di organi, portavano i serbi a Burreli dove aspettavano di essere operati. Il giorno prima dell’operazione venivano portati a Fushe-Krija, nel ranch lì vicino. Dopo che veniva preso loro tutto quello che serviva, venivano seppelliti nello stesso luogo. Dunque, le sepolture furono fatte su un terreno privato”.

UNMIK nel suo rapporto del 2003 giunge a questa conclusione:

“I prigionieri deportati nell’Albania centrale furono poi nuovamente trasportati nella Casa gialla di Burreli che fu trasformata in una clinica improvvisata. Qui il personale impiegava strumentazioni mediche per estrarre organi interni ai prigionieri che poi morivano. In seguito, i loro corpi venivano seppelliti nelle vicinanze”.

Come venivano effettuate le operazioni per l’asportazione degli organi? Quali prove materiali sono state scoperte?

Fonte: https://it.sputniknews.com






 

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