Il lamarckismo è una teoria biologica elaborata dal naturalista francese Lamarck nella seconda meta' del secolo XVIII e che costitui' la prima formulazione articolata e basata su numerose osservazioni naturaliste di una teoria sull'evoluzione delle forme viventi. In precedenza, sebbene alcune ipotesi evolutive fossero state formulate da alcuni naturalisti o filosofi, nella gran parte gli studiosi ritenevano che le specie esistessero così come erano state create, e quindi rimaste immutate durante il passato geologico della terra: fissismo.
Il formidabile lavoro di riorganizzazione delle conoscenze botaniche e zoologiche svolto da Linneo cominciava però a suggerire che potessero esservi delle relazioni tra specie simili, e Linneo stesso, che era fissista, avanzò verso la fine della sua vita l'ipotesi che, attraverso l'ibridazione, potessero formarsi specie nuove. Anche Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, avanzò qualche ipotesi evoluzionista (il termine evoluzione verrà coniato più tardi dal filosofo Herbert Spencer).
A partire dalle sue osservazione sugli invertebrati, Lamarck pubblicò nel 1809 l'opera Philosophie zoologique, dove giunse alla conclusione che gli organismi così come si presentavano, fossero il risultato di un processo graduale di modificazione che avveniva sotto la pressione delle condizioni ambientali. Formulò, perciò, l'ipotesi che in tutti gli esseri viventi sia sempre presente una spinta interna al cambiamento che li fa diventare sempre più complessi e che si manifesta attraverso "l'uso e il disuso delle parti" e "l'ereditarietà dei caratteri acquisiti". Ciò significa che, in seguito all'uso od al disuso di una parte del corpo, l'individuo tende a sviluppare certe caratteristiche (caratteri acquisiti) che tramanda poi ai discendenti. In questo modo, i vari adattamenti, sommandosi e trasmettendosi attraverso le generazioni, avrebbero dato luogo a nuove specie, diverse dalle precedenti. Anche Darwin stesso ammetteva che l'uso e il non uso di una struttura da parte di una generazione si sarebbe riflesso nella generazione successiva.
Nessuna specie poteva, quindi, essere considerata antica quanto la natura, ma era invece il risultato di una continua ed incessante trasformazione.
Secondo Lamarck questi due principi fornivano la spiegazione più plausibile dell'esistenza dei fossili, delle attuali diversità delle forme viventi e delle evidenti parentele tra gli organismi.
Questo concetto è il fondamento delle teorie evolutive. Lamarck spiegava l'evoluzione secondo quattro principi:
1. negli organismi vi è una spinta interna verso la perfezione;
2. gli organismi sono capaci di adattarsi all'ambiente;
3. la generazione spontanea è frequente;
4. i caratteri acquisiti durante la vita sono trasmessi alla prole.
Il punto critico della sua teoria erano le modalità con cui queste modificazioni erano trasmesse ai discendenti: un carattere che un individuo acquista durante la sua esistenza non può essere tramandato ai suoi discendenti perché l'espressione di quel carattere viene memorizzato dalle cellule somatiche e non da quelle germinali. Ad esempio, una persona muscolosa non tramanda i muscoli al suo discendente perché la massa muscolare influenza solo le cellule somatiche e, non venendo memorizzata da quelle germinali, che devono tramandare i caratteri ereditari, non viene trasmesso alla progenie.
Lamarck utilizzò la giraffa come esempio della sua tesi; un'antilope primitiva, alla quale fosse piaciuto brucare le foglie degli alberi, avrebbe allungato il collo verso l'alto con tutte le sue forze per arrivare al maggior numero di foglie possibile. Anche la lingua e le gambe si sarebbero allungate e tutte queste parti del corpo, di conseguenza, sarebbero diventate letteralmente un poco più lunghe, e questo allungamento si sarebbe trasmesso alla generazione successiva. La nuova generazione avrebbe avuto in partenza parti del corpo più lunghe e le avrebbe allungate ulteriormente e, poco per volta, l'antilope si sarebbe trasformata in giraffa. Lamarck assegnava una notevole importanza al ruolo attivo degli organismi nel modificarsi in risposta agli stimoli ambientali (per "ambiente" egli intendeva il biotopo e la biocenosi), e riteneva che l'uso di determinati organi, o parti di organi, provocasse modificazioni in modo che essi rispondessero meglio alle esigenze di sopravvivenza dell'animale, in base al principio "la funzione crea l'organo". Queste modifiche si sarebbero poi trasmesse alla generazione successiva, e l'accumularsi dei caratteri acquisiti, di generazione in generazione, avrebbe determinato l'apparire di nuove specie meglio adattate all'ambiente.
Georges Cuvier, il fondatore della paleontologia dei vertebrati, avversava questa teoria mantenendo una posizione fissista. La teoria non spiegava, ad esempio come si producevano quelle modificazioni che non potevano essere prodotte da sforzi volontari, come la pelle mimetica maculata della stessa giraffa a partire dalla pelle uniforme delle antilopi. È del tutto vero che gli organismi si modificano nel corso della loro vita (il fenotipo, cioè l'organismo quale ci appare in natura), ma non vi era alcuna prova che queste modificazioni fossero trasmissibili. Fu in seguito che August Weissman dimostrò l'improbabilità della trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti. Lamarck ebbe il merito di sostenere il concetto di evoluzione, contro le concezioni fissiste del suo tempo; affermò che gli organismi viventi non sono immutabili, bensì si trasformano ininterrottamente e si trasformano per adattarsi all'ambiente e conseguire una più efficiente capacità di sopravvivere, che le loro trasformazioni si accumulano nel corso delle generazioni dando luogo a specie nuove. Darwin in seguito diede una diversa spiegazione dei meccanismi dell'evoluzione biologica ma, nonostante che le ipotesi di Lamarck siano state in seguito dimostrate infondate, Lamarck rimane il precursore delle scienze evolutive, il primo scienziato ad affermare la trasformazione dei viventi.
I presupposti della teoria di Lamarck si possono riassumere nei seguenti tre postulati:
1. Le cause dei fenomeni vitali vanno cercate nella composizione chimica della materia vivente;
2. La scienza è solo scienza di processi continui regolati da leggi;
3. La scienza può essere solo scienza della causalità deterministica.
In questo modo Lamarck portava la biologia fuori dal creazionismo e fondava una prospettiva dinamica della storia della natura.
La sua spiegazione delle modalità dell'evoluzione ebbe una influenza enorme sia sulla biologia sia sulle scienze sociali. Essa sembrò verosimile perché la stessa evoluzione psico-sociale degli uomini è, in effetti, un processo di tipo lamarckiano (dove però i caratteri socio-culturali acquisiti vengono trasmessi per via esogenetica). Il lamarckismo è continuato ufficialmente sotto varie forme, fino agli anni trenta del secolo scorso, ad opera di alcuni biologi e filosofi come Edmond Terrier, Felix Le Dantec, Alfred Giard e altri.
Fonte: http://it.wikipedia.org
Lamarck, prima dell’avvento delle teorie evoluzionistiche di Darwin, proponeva che i genitori trasmettessero ai figli per via genetica (usando un anacronismo) le informazioni accumulate in vita. L’esempio classico (e logoro) è quello della giraffa che, dopo una vita passata a tirarsi il collo per raggiungere le foglie più alte e tenere, genera dei cuccioli col collo più lungo. Sebbene le teorie di Lamarck siano state ampiamente smentite dai dati sperimentali, recenti studi sulla struttura della cromatina, il contenuto del nucleo DNA compreso, hanno mostrato che una trasmissione Lamarckiana dell’informazione potrebbe essere possibile. I meccanismi molecolari di questa trasmissione sono stati discussi in un precedente articolo apparso su questo sito (“Epigenetica o la rivincita di Lamarck”). In particolare era stato sottolineato come, la metilazione (ossia l’aggiunta reversibile di una molecola di metano) del DNA e la modificazione degli istoni (le proteine che “impacchettano” il DNA) possa cambiare l’espressione genica. L’obiettivo di questo nuovo articolo è di mostrare alcuni esempi di trasmissione di caratteri lamarckiani e, nella misura del possibile, cercare di comprendere il design sperimentale che ha permesso di mettere in evidenza questa trasmissione.
Le piante imparano?
Vorrei qui brevemente definire ciò che si intende solitamente in biologia per stress. Qualunque variazione nell’ambiente esterno o interno (itracellulare), così come la permanenza in condizioni non ottimali può essere, biologicamente parlando, considerato uno stress. Le piante non possiedono alcun sistema nervoso, non hanno quindi la possibilità di memorizzare informazioni in una rete neuronale come è invece il caso per gli animali superiori (quanto meno i mammiferi). Milioni di anni di selezione naturale, hanno però permesso alle piante di sviluppare degli automatismi che le permettono di reagire efficacemente a stimoli esterni (stress).
Le reazione delle piante sono in generale basate sull’attivazione di proteine già presenti o sull’attivazione di taluni geni che portano a sintesi “de novo” di proteine specifiche. Nel caso dello stress il secondo meccanismo è generalmente maggioritario, in quanto sarebbe troppo dispendioso, per l’organismo in questione, la produzione costitutiva di una proteina inutile in condizioni ottimali.
La risposta genica reagisce però come un programma informatico, secondo una metafora ormai alquanto popolare. Ad ogni stimolo corrisponde una sempre uguale risposta. Sebbene la presenza di proteine residue dalla precedente risposta possa modulare l’attività genica quantitativamente, resta il fatto che la pianta è costretta, ad ogni nuovo stress, a rincominciare pressoché daccapo. Questo problema è particolarmente marcato per stress mediamente distanti nel tempo, in quanto la vita media delle proteine effettrici non supera in generale la scala delle settimane. Pare quindi abbastanza logico che un sistema di memoria sarebbe alquanto utile ai vegetali.
Un primo esempio di “memoria” vegetale ci viene dalla fioritura della piante perenni. È stato infatti da lungo tempo mostrato che la fioritura di molte piante dipende soprattutto dalla lunghezza dei giorni (e dalla temperatura). Appare immediatamente abbastanza logico che, la lunghezza del giorno non può essere l’unico fattore determinante per la fioritura, in quanto le stesse condizioni si ripropongono sia in primavera che in autunno. Come può dunque una pianta sapere se siamo in primavera o in autunno? Esistono essenzialmente due possibilità.
- la pianta è in grado di ricordare la lunghezza del giorno precedente con precisione millimetrica. La pianta è quindi in grado di capire se le giornate si stanno allungando o accorciando. Quest’ipotesi è alquanto inverosimile. La precisione di misurazione richiesta è infatti improponibile, soprattutto considerando che il soleggiamene è molto influenzato dalle condizioni metereologiche.
- La pianta è in grado di ricordarsi come si stava la stagione precedente. Visto che la principale differenza tra l’estate e l’inverno è la temperatura, questa è il candidato principale. La pianta si “ricorderebbe” quindi come se la passava qualche mese prima, se insomma, si moriva di freddo o si scoppiava di caldo. Quest’ipotesi è stata da tempo provata, un periodo di freddo permette alla pianta di fiorire se in seguito messa nelle giuste condizioni di illuminazione.
Come detto in precedenza le proteine non godono in generale di una stabilità sufficiente per tramandare un’informazione su diversi mesi. Solo recentemente ci si è accorti che taluni geni sono specificatamente metilati durante l’inverno, ciò che li rende inattivi. L’assenza di questi geni, assieme al rapporto giorno/notte induce la fioritura della pianta. La metilazione è in seguito cancellata durante l’estate, ciò che riaccende i geni specifici i cui prodotti saranno presenti durante l’autunno ed agiranno come soppressori di fioritura. Un primo esempio di “memoria” vegetale è quindi stato descritto.
Si sa, la natura non ama gli sprechi. Una volta creato tutto l’armamentario necessario per un tale meccanismo è un peccato non applicarlo là dove sarebbe utile. E, come per coincidenza, è il caso dello stress.
Alcuni esperimenti biometrici sul sorgo (1, 2) hanno permesso di mettere in evidenza una memorizzazione dello stress da parte delle piante. Le piantine di sorgo sono state piantate in un terreno troppo salato, cosa che, manco a dirlo, secca terribilmente la stragrande maggioranza dei vegetali. In un primo esperimento (1) gli autori hanno mostrato come la risposta allo stress salino sia molto variabile (nonostante le piante geneticamente identiche, dei “gemelli”), a seconda delle condizioni “di contorno” in cui l’esperimento si sta svolgendo. La lunghezza del giorno, la temperatura, eccetera possono modificare quella che normalmente dovrebbe essere la monotona risposta genica. Un fattore esterno a quello genetico è quindi presumibilmente presente. In un secondo (e decisamente meglio riuscito) studio (2) lo stesso autore mette in evidenza come uno stress salino possa far cambiare radicalmente i rapporti che regolano la crescita della pianta anche molto dopo che lo stress si è esaurito. Taluni caratteri che non sembrano assolutamente legati fra loro nelle piante che non sono state stressate, come per esempio l’altezza della pianta e il numero di semi, diventano interdipendenti se la pianta è stressata. Altre relazioni, come ad esempio il numero di foglie e il peso dei semi, hanno un comportamento opposto.
In breve, settimane dopo la fine dello stress, la pianta sembra serbare “memoria” dell’avvenuto stress salino, ciò che influenza la sua attività. È di particolare interesse notare come il peso medio del seme possa essere influenzato dalla pianta madre. Se è vero che la crescita del seme (l’embrione della pianta) dipende in larga misura dalla madre, è anche vero che il programma genetico che lo regola è già quello della pianta-figlia. Una trasmissione di informazione non genetica potrebbe quindi aver avuto luogo. Sebbene questo esperimento non rappresenti di per sé una prova (il tutto potrebbe essere spiegato da una malnutrizione dell’embrione), i dati sembrano quanto meno suggerire l’esistenza di questo meccanismo.
La memoria molecolare delle piante:
Abbiamo fin qui visto che le piante sono in grado di memorizzare delle informazioni e di conservare a lungo termine questa memoria. Da un punto di vista molecolare questa memoria si traduce con la metilazione del DNA di alcuni geni, che vengono così “spenti”. Modificazioni dell’impacchettamento del DNA che coda per questi geni sono anche possibili. Impacchettare più stretto il DNA induce l’impossibilità di lettura dei dati in esso contenuti, i geni così impacchettati sono quindi egualmente “spenti”. Bisogna però sapere che i due fenomeni sono interconnessi, la metilazione induce spesso cambiamenti di impacchettamento e viceversa.
Resta in ogni caso da chiarire come la pianta possa riconoscere in maniera specifica i geni da spegnere (argomento che affronterò in seguito) e come questa informazione sia trasmessa da una cellula all’altra. Bisogna infatti ricordare che una pianta adulta ha logicamente molte più cellule che un giovane virgulto. Durante la divisione cellulare i due filamenti del DNA sono separati, ognuno sarà utilizzato per risintetizzare il filamento opposto. La metilazione del DNA è quindi diluita nel corso delle divisioni cellulari.
Un esempio è forse d’aiuto. Supponiamo che la giovane pianta è composta da 1000 cellule, possiederà quindi in tutto 1000 doppi filamenti di DNA. Uno stress indurrà la metilazione di opportuni geni (che sono così spenti) il che conferisce la memoria. Se ora ogni cellula si replica una volta ci troveremo con 2000 cellule ognuna col suo doppio filamento ma solo uno sarà metilato (quello anziano) mentre quello nuovamente sintetizzato non porterà la metilazine. Un’ulteriore divisione cellulare produrrà 4000 cellule totali, di cui 2000 metilate su un solo filamento e 2000 senza metilazione. Ad ogni riproduzione cellulare il tutto peggiorerà. Mentre il numero di filamenti metilati resterà stabile (2000) il numero di cellule crescerà cancellando per diluizione la memoria.
Fortunatamente un meccanismo di mantenimento dell’informazione epigenetica (la metilazione nel caso) esiste, esso consiste essenzialmente nel rimetilare costituzionalmente il DNA che si trova appaiato a DNA metilato. Praticamente nella divisione cellulare allorché un nuovo filamento è sintetizzato, il DNA che si trova opposto al DNA metilato è a sua volta modificato. La memoria è così mantenuta. Si conoscono oggigiorno alcuni degli attori molecolari di questo meccanismo (3, 6). Alcune piante mutanti incapaci di questo meccanismo sono noti e stanno permettendo la studio approfondito di questo fenomeno.
Abbiamo quindi finalmente capito come una pianta può “ricordare” durante la sua vita parte del suo vissuto.
Cosa ricordare?
Resta però da affrontare un problema cruciale della regolazione epigenetica. Come può la pianta decidere quali geni (quelli giusti si spera), metilare (spegnere) o demetilare (accendere) per mantenere memoria del suo vissuto*.
Purtroppo i meccanismi implicati negli stress sono attualmente mal conosciuti, il poco che si sa è talmente tecnico da sorpassare (ampiamente) le mie modeste capacità di volgarizzatore. È peraltro molto più nota l’implicazione della soppressione epigenetica dei virus. Questo meccanismo è tanto efficace che si ritiene attualmente che l’intero sistema sia stato in un primo momento creato (evolutivamente) per combattere le infezioni virali (e transposoni e retrotransposoni, ma lasciamo perdere). La maggioranza dei virus vegetali sono infatti virus a RNA**. L’RNA virale passa forzatamente per un intermediario a DNA, o a RNA doppia elica, o entrambi (ciò che nella cellula in principio non succede mai). La cellula ha quindi imparato a riconoscere questi elementi. L’RNA doppia elica è selettivamente frammentato, i frammenti utilizzati per rintracciare RNA di uguale sequenza (e quindi virali) che saranno in seguito distrutti. La scoperta di questo notevolissimo meccanismo (funzionante anche nell’uomo), chiamato RNA intererenza o RNAi, è valso ai ricercatori il premio Nobel per la medicina e la fisiologia 2006. Recenti studi mostrano in maniera molto elegante che, allorché un intermediario a DNA è presente, la cellula è in grado di rintracciarlo (sempre per omologia di sequenza con l’RNA) e di spegnerlo epigeneicamente (6). Questo secondo meccanismo (distinto dall’RNAi) permette di controllore i virus con un intermediario a DNA.
La dimostrazione di questo meccanismo richiede l’utilizzo di piante geneticamente modificate. In un primo tempo i ricercatori hanno infatti prodotto una pianta transgenica in cui hanno incluso un gene di medusa, chiamato GFP (lo scarsamente originale acronimo di green fluorescent protein). L’unica proprietà di questo gene è permettere la produzione di una proteina che, se illuminata con luce ultravioletta, emette un’intensa luce verde (per fluorescenza). Le piante transgeniche non trattate possiedono quindi questa caratteristica. Quando però queste piante sono infettate con un virus modificato, portante un frammento di DNA del gene GFP, la fluorescenza scompare. Questo meccanismo potrebbe sia essere dovuto alla distruzione dell’RNA per RNAi, sia allo spegnimento epigenetico del gene GFP. Notevolmente, si è notato che, quando la pianta è ormai da molto tornata sana (il virus non è più rintracciabile), l’espressione del gene GFP rimane spenta. Un’analisi del suo DNA rivela che esso è intensamente metilato, il gene è quindi stato epigeneticamente spento. La pianta ha quindi riconosciuto il gene giusto, l’ha spento, e l’ha mantenuto spento nei nuovi tessuti.
E Lamarck?
Ebbene abbiamo finora dimostrato che le piante sono capaci di memoria, che questa memoria si deve a meccanismi epigenetici, che le modificazioni epigenetiche si possono tramandare da cellula in cellula durante lo sviluppo della pianta e, dulcis in fundo, che la risposta epigenetica è specifica allo stress a cui la pianta è sottoposta (caso del virus) (5, 6). Nel mio titolo parlo però di lamarckismo. Non basta che la pianta apprenda; il vero, unico, duro, puro lamarckismo pretende che questa informazione sia passata ai piccoli. È forse il caso? Come dimostrarlo?
Nulla di più semplice. Torniamo alle nostre piante transgeniche, non più fluorescenti a seguito dell’infezione del virus ricombinante (con pezzettino di GFP aggiunto se ricordate). Ebbene se l’epigenetica è lamarckista, allora i giovani virgulti figli delle piante infettate, dovranno tassativamente essere non-fluorescenti (=trasmissione di soppressione di un gene normalmente sempre espresso). È forse il caso? Certo che sì. Ma, tocco finale, al contrario dei genitori il 70% di loro riprenderà lentamente, nel corso della loro esistenza ad esprimere la fluorescenza.
La pianta perdona, dimentica lentamente le vessazioni del passato, conscia ormai che una generazione è passata e timidamente ricomincia ad esprimere i geni soppressi se nessuna infezione si rifà viva.
A confermare il tutto i discendenti delle neofluorescenti piantine saranno tutti fluorescenti (ma smetteranno se infettati col virus modificato), mentre i discendenti delle piante che hanno mantenuto la soppressione… ebbene il 30% di loro manterrà la soppressione mentre il 70% ritornerà ad essere fluorescente.
Ecco che, almeno un meccanismo lamarckiano, è stato infine dimostrato.
E quella buffa creatura chiamata Homo sapiens?
I meccanismi epigenetici dell’uomo sono molto meno conosciuti che quelli delle piante. Innanzi tutto non è verosimile (e fortunatamente neppure legale) iniziare protocolli sperimentali simili sull’uomo. Ciò nonostante, si è dimostrato che la regolazione epigenetica esiste (per esempio dosaggio del cromosoma X nella donna per gli specialisti), durante la maturazione degli ovuli delle modificazioni epigenetiche del potenziale futuro bambino sono in effetti effettuate dalla madre. Non è finora però stato chiarito se queste modificazioni (che sono altresì presenti in misura minore nella spermatogenesi) possano variare a seconda del vissuto dei genitori o se servano unicamente a dire all’embrione, “ricordati che sei un embrione”.
Nemmeno nel topo, che resta tuttora il nostro miglior modello e per cui esistono protocolli sperimentali, è stato per ora dimostrato alcun tipo di lamarckismo. È però verosimile che se dovesse essere il caso l’influenza del lamarckismo sui mammiferi sarà minore. In primo luogo essi dispongono di altri modi di trasmissione di informazione non genetica (l’apprendimento) secondariamente, essendo animali, allorché sottoposti a uno stress, come il virus dell’esempi, essi possono semplicemente migrare verso lidi meno stressanti (appestati nel caso), opzione che le mie beneamate piante non posseggono
*) Nulla a che fare con la regolazione genica necessaria all’attivazione e alla disattivazione normale dei geni. Questo meccanismo, che permette di spiegare la stragrande maggioranza delle risposte geniche del vivente, si basa infatti sulle regioni che precedono i geni (i promotori). Si sta qui parlando invece di mantenere memoria di accendere/non accendere, nonostante la regione promotrice. Per riprendere l’esempio di inizio articolo i geni di fioritura sono accesi da un rapporto giorno/notte di 1 (ciò che accade in primavera ed autunno). Un soppressore di fioritura è però normalmente sempre prodotto (promotore tipo “leggimi sempre”). Un periodo di freddo è però in grado di metilare questo gene rendendolo così illeggibile nonostante il suo promotore (memoria). Per maggiori dettagli sulla struttura dei geni vedere anche “i segreti del gene” apparso su questo stesso sito.
**) Ricordo brevemente quella che è chiamata la trinità della biologia molecolare. L’informazione genetica è contenuta nel DNA sotto forma di “blocchi”, i geni appunto. Allorché si rivela necessario questa informazione è fotocopiata (trascritta) in RNA che è in seguito esportato nelle “fabbriche cellulari” in cui sarà tradotta in proteine, le macchine della cellula. DNA, RNA, e proteine formano la sopraccitata trinità della biologia molecolare. Per maggiori dettagli su RNA e DNA vedere anche “i segreti del gene” apparso su questo stesso sito.
Bibliografia essenziale:
1) H. Seligmann, G.N. Amzallag. Adaptative determinism durino salt-adaptation in Sorghum bicolor. 1995. Biosystems 36, pp 71-77.
2) G. N. Amzallag. Perturbed reproductive development in salt-treated Sorghum bicolor: a consequence of modification in regulation networks?. 2005. Journal of experimental botany, vol 56, pp 2821-2829.
3) H. Saze, O. M. Scheid, J. Paszkowski. Maintenance of CpG methylation is essential for epigenetic inheritance during plant gametogenesis. 2003. Nature genetics, vol 34.
4) M. Lauria, M. Rupe, M. Guo, E. Kranz, R. Pirona, A. Viotti, G. Lund. Estensive maternal DNA hypomethylation in the endosperm of Zea mays. 2004. The plant cell, vol 16, pp 510-522.
5) L. Jones, F. Ratclif, D. C. Baulcombe. RNA-directed transcriptional gene silencing in plants can be inherited independently of the RNA trigger and requires Met1 for maintenance. 2001. Current biology, vol 11, pp 747-757.
6) S. Takeda, J. Paszkowski. DNA methylation and epigenetic inheritance during plant gametogenesis. 2005. Chromosoma, vol 115, pp 27-35
Fonte: http://www.lankelot.eu