Non sto parlando degli agenti più o meno segreti che lavorano nei servizi d’intelligence di vari paesi, come, tra i più famosi (o famigerati), l’MI6 (ora SIS), l’MI5 e il DIS, la CIA e l’FBI, il Mossad e lo Shin Bet, l’ex (?) KGB, e la capillare rete diplomatica del Vaticano. Quella è una professione da specialisti altamente qualificati che raccolgono e analizzano informazioni militari, politiche, commerciali, eccetera, ottenute mediante mezzi più o meno leciti – talvolta anche oltre i limiti del loro mandato ufficiale. E non sto nemmeno parlando dello spionaggio praticato dalle multinazionali, dalle holding finanziarie, dalle grandi, medie e piccole industrie, dai governi e dai partiti politici, dai centri di potere d’ogni genere – sociali, sindacali, ideologici, religiosi, accademici, fino alle cosche mafiose piccole e grandi, nazionali ed internazionali - che si distingue da quello dei servizi d’intelligence istituzionali per la sua natura più aggressiva, di solito illegale e non di rado assolutamente criminale. Naturalmente anche in questi ambienti possono darsi casi di problemi psicologici meritevoli d’attenzione clinica. Tanto è vero che i servizi d’intelligence accennati sopra posseggono sezioni ed uffici in grado di offrire aiuto psicologico agli agenti che per qualche motivo (stress, fatica cronica, burn-out, incidenti, fallimenti operativi, traumi, eccetera) accusassero qualche disagio emotivo. Ho già scritto altrove quali possono essere i problemi psicologici dei poliziotti, investigatori, ed altri membri delle forze dell’ordine, ed avrei intenzione di tornare sull’argomento anche a proposito degli operatori dell’intelligence. Se il tempo, le energie e le mie modeste capacità me lo consentiranno, ne parlerò la prossima volta. Oggi invece vorrei soffermarmi sul fenomeno più spregevole e volgare dello spionaggio spicciolo condotto da dilettanti che non meriterebbero nemmeno il nome di spie, ma piuttosto di confidenti, informatori, delatori, sicofanti, calunniatori, traditori, scherani e sicari.

Il fenomeno.
Si comincia da piccoli. Nelle scuole elementari esiste già la figura e la funzione del capo-classe incaricato di segnare sulla lavagna i nomi dei “buoni” e dei “cattivi” durante le saltuarie assenze dell’insegnante. Questa posizione semi-ufficiale e semi-pubblica non è priva di piccoli vantaggi, sia nei confronti dei compagni (che possono facilmente venir ricattati), sia nei confronti dell’insegnante (che può sviluppare una particolare benevolenza verso l’alunno che lo aiuta a mantenere la disciplina). Al punto che qualche altro alunno, allettato da tale prospettiva di privilegio, può spontaneamente fungere da clandestino informatore supplementare contro i compagni più discoli o più a lui antipatici. Vengono così a delinearsi alcuni degli elementi essenziali di ciò che in alcuni individui assumerà lineamenti più complessi e organizzati con il crescere dell’età e dello sviluppo cognitivo, del passaggio ai gradi scolastici superiori (dal ginnasio al liceo o al college, e sino all’università ed oltre) e dell’appartenenza ad altri gruppi (partiti politici, squadre sportive, parrocchie e sette religiose, associazioni, club, eccetera) a cui si aderisce nel corso della vita. Ma anche questo meriterebbe una trattazione più estensiva, mentre invece nel capitolo dedicato alla psicopatologia del mandatario se ne prenderà in esame soltanto un caso particolare.

Il mandante.
Qui abbiamo a che fare con alcuni individui che si trovano in posizione di una qualche anche minima autorità e potere nei confronti di un gruppetto di persone. Soltanto alcuni, beninteso, quelli psicologicamente più deboli e fragili. Si tratta infatti di quei piccoli “capetti” (maestri di scuola, insegnanti, educatori, istruttori, pedagoghi e precettori, professori, docenti e baroni universitari, eccetera) che ricorrono in maggiore o minor misura all’uso delle spie a scopi grosso modo difensivi. Il tratto dominante del loro atteggiamento è naturalmente la paura, dettata dalla convinzione di vivere in costante pericolo (ansia del disagio) e di facile vulnerabilità personale (ansia dell’io). Tale giudizio di debolezza (presunzione autosvalutativa) in un ambiente considerato malfido ed ostile (presunzione autocommiserativa) contribuisce a comporre la costellazione problematica che li affligge e che spiega i tentativi di controllare la situazione rappresentati appunto dall’uso di delatori e spie. Nel make-up psicologico di questi individui è caratteristica costante la quasi assoluta mancanza di senso dell’umorismo. Non si tratta precisamente di un problema clinico, ma quando il sorriso, la battuta, lo scherzo, la critica divertita, e persino l’atteggiamento rilassato e tollerante o il semplice buonumore vengono interpretati come una minaccia o una ferita alla propria immagine (ansia dell’io), alla sua posizione o alla sua attività (ansia del disagio), allora siamo sul terreno della palese psicopatologia di tipo ansioso-depressivo accennata sopra. Il fatto si è che tale mancanza li rende letteralmente terrorizzati dal ridicolo.E lo temono più di qualsiasi critica o giudizio professionale, deontologico, morale od umano. Esso rappresenta infatti il loro tallone d’Achille, ovvero i loro piedi d’argilla. Al punto che sospettano e paventano il ridicolo in modo esasperato, credono di individuarlo persino nel tono della voce, nello sguardo, nella postura, nelle parole e nei comportamenti più normali e banali. L’inferenza viene valutata in termini catastrofici e provoca un’acuta sofferenza primaria (1stABC) ansioso-depressiva. Su questa si costruisce un ostilità secondaria (2ndABC) che non sempre viene contenuta e li spingerebbe a reagire rabbiosamente in modo diretto o indiretto. Più spesso accade invece che l’autosvalutazione di cui soffrono li rende pavidi di fronte ad una prospettiva di scontro; quindi l’ostilità non viene agita e rimane occulta, assumendo la forma altrettanto patologica di un tacito rancore cronico e di un astio permanente – un’emorragia emotiva che gli avvelena la vita e li consuma anche fisicamente sino al rischio di manifestazioni, sintomi o vere e proprie malattie di natura psicosomatica. Interessante sottolineare come tutto ciò abbia una duplice deleteria influenza nei rapporti con gli altri. La più ovvia conseguenza è rappresentata dal fatto che gli altri vengono considerati come pericolosi concorrenti da tenere a bada o da eliminare. Il che conduce alla impossibilità d’avere rapporti amichevoli con loro – donde la sostanziale ipocrisia, doppiezza e simulazione presenti in ogni contatto umano, sino alla menzogna, allo sleale boicottaggio, alla maldicenza e alla calunnia. Non di rado il gioco, condotto in modo talvolta poco prudente o troppo scoperto, non riesce sino in fondo e può mostrare la corda, divenire palese e portare inevitabilmente a litigi e rotture più o meno clamorose. Con il frequente risultato che chi veniva a priori considerato nemico, mentre invece non lo era e forse era in certa misura quasi amico, ora diviene a sua volta maldisposto e avverso se non propriamente ostile. Virtutem videant intabescantque relicta.(Aulus Persius Flaccus) Per contro, quando cioè gli altri non vengono considerati nemici capaci di nuocere, ma innocui ed imbelli, allora vengono usati come strumenti di sorveglianza nei confronti di quelli pericolosi. Anzi, nei confronti di tutti anche di quelli non giudicati attualmente pericolosi, perché l’interpretazione dell’ambiente come potenzialmente ostile e persecutorio spinge a non fidarsi mai di nessuno. In entrambi i casi gioca un ruolo fondamentale l’essenziale mancanza di rispetto verso se stessi (presunzione autosvalutativa) che non consente ovviamente di nutrire alcun rispetto verso gli altri (presunzione eterosvalutativa). Al punto che si disprezzano coloro che vengono temuti, e si disprezzano e si seducono, si comprano e si corrompono i più deboli e indifesi, ricorrendo se del caso alla subornazione e al ricatto. E in alcune circostanze, quando cioè il mandante incontra un individuo affetto dal medesimo disprezzo di se stesso e degli altri, particolarmente suscettibile alle promesse ed al prezzolamento, e in posizione tale da poter danneggiare qualcuno considerato dal mandante come un concorrente troppo pericoloso, il mandatario viene coinvolto in un pactum sceleris con il ruolo di traditore e di sicario.

Il mandatario.
Sembra abbastanza naturale, direi quasi intuitivo, che il problema più frequente della spia sia la paura di venire scoperta o di scoprirsi con qualche parola o mossa imprudente. L’ansia quindi del giudizio altrui (ansia del disagio) e del fallimento (ansia dell’io). Se poi la scoperta avviene veramente, oppure se il sospetto fra le vittime assume dimensioni e manifestazioni più concrete, è abbastanza automatico che la spia precipiti in una catastrofizzazione dell’evento (depressione autocommiserativa) e in un globale giudizio negativo su se stessa (depressione autosvalutativa). Oltre, però, allo stato permanente d’ansia che abbiamo appena detto, troviamo anche nella spia la fondamentale mancanza di rispetto verso se stessa (presunzione autosvalutativa) . A differenza, però, del caso del mandante, il disprezzo verso gli altri (presunzione eterosvalutativa) viene limitato ai pari grado o agli inferiori. Nei confronti, invece, di chi si trovi in posizione anche minima d’autorità e di potere la spia sviluppa una specie di timore reverenziale – non tanto per la persona del mandante, quanto piuttosto per il suo potere di offrire compensi finanziari, favoritismi e facilitazioni, o vantaggi d’altra natura, in cambio d’eventuali servigi resi. Donde un atteggiamento di disponibilità, compiacenza, sollecitudine, e cortigianeria adulatoria che si traducono infine nel servilismo con cui il mandatario accetta l’incarico di fare il delatore e la spia. Questa organizzazione problematica sembra abbastanza semplice e limitata a due nuclei essenziali di natura ansioso-depressiva. A complicare però il quadro possono intervenire altri problemi che rendono più complessa la patologica costellazione cognitivo-emotivo-comportamentale della spia. C’è infatti da considerare che il disprezzo della spia verso se stessa deriva necessariamente da una qualche residua idea di lecito ed illecito, di “bene” e di “male” - insomma, da una scala di principi e di valori non ancora completamente rinnegata. Principi e valori che la spia volontariamente tradisce e si rende conto di tradire. Ne consegue l’insorgenza di un problema di autocondanna (colpa) che trova soltanto insufficienti attenuanti nei vantaggi derivanti da tale tradimento. A questo punto il disagio psicologico della spia si avvicina a quella situazione angosciosa che viene descritta con il termine di “dissonanza cognitivo-emotivo-comportamentale” in cui una convinzione pone delle premesse imprescindibili che vengono invece a contrasto con altre convinzioni utilitaristiche. La polemica interna potrebbe trovare una parziale composizione soltanto rinunciando all’incarico, ma di solito si conclude con una decisione che porta ad agire in modo diametralmente opposto alle premesse della prima convinzione, mentre le reazioni emotive non trovano una sistemazione equilibrata fra queste clamorose contraddizioni. Anche nel caso di una rinuncia all’incarico e di una eventuale confessione di fronte alle vittime, si tratterebbe di una composizione soltanto parziale perché il problema di colpa rimarrebbe presente almeno per quanto riguarda il periodo in cui l’incarico è stato portato avanti. Ci sarebbe inoltre da aggiungere tutta la costellazione degli eventuali problemi ansioso-depressivi relativi al giudizio delle vittime, quelli di un’ostilità secondaria contro il mandante che ha messo il mandatario in una tale situazione di disagio, e quelli eminentemente ansiogeni relativi alle eventuali rappresaglie del mandante. (E’ possibile che occasionalmente anche il mandante si renda conto di stare adoperando mezzi sleali, scorretti o delinquenziali, ma se li giustifica facilmente in vista del fine supremo della propria precaria sopravvivenza e sicurezza. Il mandante inoltre agisce direttamente e in prima persona soltanto nell’opera di corruzione del mandatario, mentre per il resto mantiene una certa asettica distanza dal lavoro quotidiano d’inganno e dissimulazione affidato alla spia, e da quello di tradimento affidato al sicario.)

Note a margine.
1) Un’altra frequente caratteristica di quei “capetti” che dicevo sopra è definibile con l’intraducibile parola tedesca Schaddenfrude che significa la gioia per le disgrazie o le sofferenze altrui. Si tratta. in realtà di un atteggiamento ostile organizzato a vari livelli del sistema cognitivo, tanto da poter esser definito come un problema di secondo ordine (2ndABC) su basi primarie generalmente ansioso-depressive (1stABC). Diffusissimo in tutta la specie umana (dalle tribù Andine agli Ottentotti africani), e persino fra i primati superiori (scimpanzé), rappresenta uno dei pochi motivi di maligno godimento e sadica soddisfazione nella vita essenzialmente triste, tetra e infelice, in una parola, depressiva, di questi individui. E tale momento di miserabile piacere sarà tanto più intenso quanto più la disgrazia, il danno, il nocumento altrui sono stati desiderati, auspicati o addirittura messi in opera direttamente dal mandante o indirettamente da un suo scherano.
2) In questo breve scritto ho trattato esclusivamente dell’opera di subornazione che tali “capetti” esercitano nei confronti dei sottoposti per ottenerne servigi di spionaggio. Ci sarebbe da parlare di altri comportamenti che essi possono mettere e sovente mettono in atto per sfruttare la propria posizione a dànno altrui. Ad esempio, per ottenere un gratuito lavoro di segreteria. Oppure la compilazione di articoli e saggi affidati agli allievi e poi invece firmati dal capetto medesimo.
Ma c’è di peggio.Talvolta avvengono vicende in cui la mancanza di rispetto verso se stessi e conseguentemente verso gli altri arriva forse alla sua espressione più disgustosa. Si tratta della seduzione o corruzione delle allieve per ottenerne prestazioni sessuali. La faccenda è ancor più ripugnante ed oscena quando si tratta di medici, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti che si approfittano di qualche paziente. In entrambi questi casi viene violato non solo e non tanto un principio moralistico o deontologico, ma piuttosto il dato fondamentale di quel poco di civiltà che ci siamo conquistati da quando si viveva come le bestie ed il più forte aveva facoltà di vita, di possesso, sfruttamento e persino di morte sul più debole per il solo motivo di essere il più forte. ”L’ho fatto semplicemente perché potevo farlo”, come ha confessato nella sua recentissima autobiografia un Presidente degli Stati Uniti che, mentre era in carica, aveva sessualmente approfittato di una giovane impiegata della Casa Bianca.

Fonte: https://sites.google.com

 

 

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